aprile 06, 2010

DANTE (quarta lezione, audio 22 e 24)

De Vulgari Eloquentia
Il pane degli angeli, che è naturalmente il pane della scienza. In questo stesso capitolo dà anche il disegno mentale: "La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado"; innanzitutto sappiamo da questa frase di Dante che il disegno generale del Convivio era di proporre un commento a 14 canzoni, in realtà le canzoni del Convivio sono solo 3. Sappiamo anche il titolo, ma sappiamo anche un'altra cosa, quando lui fa questa riserva e cioè che le sue canzoni possono avere "alcuna oscuritate", alcuna ombra; alcune canzoni del Convivio circolavano prima che lui componesse l'opera stessa; egli inserisce, preleva, come già successe per la Vita Nuova, dalla sua produzione 3 canzoni che arricchite di questo commento vengono ad acquistare, vengono ricoperte di un tessuto filosofico, dottrinario, morale che nella loro veste originaria non possedevano. Anche per il Convivio si dà lo stesso caso della Vita Nuova: Dante, dalla sua produzione lirica, estrae 3 canzoni e attraverso il commento, così come aveva fatto nella Vita Nuova attribuisce loro dei significati che originariamente queste canzoni assolutamente non avevano. La figura della donna gentile viene interpretata nel Convivio da Dante come Filosofia, sulla scorta dell'opera di Boezio "De consolatione philosophiae". E' una reinterpretazione a posteriori, c'è questo sovraccarico di senso che Dante conferisce inserendole grazie a questo commento di tipo scolostico-filosofico-dottrinario che sono le prose del Convivio. L'accenno, la differenza che lui pone rispetto alla Vita Nuova: "E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene"; ecco che questo confronto, questa differenza che Dante pone tra la Vita Nuova, qui espressamente richiamata, e il Convivio; la Vita Nuova è un'opera "fervida e passionata" (è comunque opera giovanile di Dante) e questa "temperata e virile", irrobustita, non solo per ragioni anagrafiche, poiché Dante naturalmente è più anziano; fra l'altro, basta leggere il primo verso della Commedia, l'età dell'uomo in età medievale erano scandite da alcune date: "Nel mezzo del cammin di nostra vita", ovvero nel pieno della maturità del'uomo, ovvero 35 anni; l'epoca giovanile si colloca sui 25 anni, non a caso la Vita Nuova viene collocata (ma è un artificio narrativo, una finzione) nel 1290 quando per l'appunto Dante aveva 25 anni, la piena maturità veniva collocata ai 45 anni. Sia pure in chiave totalmente simbolica e cristologica, ma comunque la Vita Nuova è il racconto di una grande esperienza d'amore che diventa una grande esperienza di crescita anche spirituale. Questa invece è densa, è fitta di dottrina, di scienza, di filosofia, di logica scolastica e di teologia. Il Convivio, in questi primissimi capitoli ha una delle pagine più belle di Dante sul tema dell'esilio, del suo esilio; di questo abbiamo anche conferma nella scarsità di precisi dati documentali del fatto che quest'opera, come nel caso del De Vulgari, sia stato scritto nell'esilio. Tema dell'esilio non soltanto l'importanza ai fini della figura della Commedia, ma anche di tutta l'esperienza culturale, della maturazione politica di Dante; nauralmente conosce, questo tema dell'esilio, conosce uno sviluppo narrativo e poetico. Il tema dell'esilio è una delle grandi arcate, dei grandi temi che percorrono dall'Inferno al Paradiso la Commedia. L'apostrofe così patetica quando parla del suo esilio da Firenze: "Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata!": aveva detto subito prima che la durezza di questa sua opera è anche causata dalla sua condizione esistenziale di povertà e di pena; "chè nè altri contra me avria fallato, nè io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate": ogni volta che lui parla del suo esilio è anche qua assume questi toni altissimi e dolenti come di rimpianto incancellabile per quello che ha lasciato, ma accompagna questa tonalità così patetica, così dolente, con la sottolineatura che il suo esilio è stato assolutamente ingiusto. E lo si vedrà meglio nel "Canto dei Barattieri" (canto XXI). Esilio e di povertà: "Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza", ovviamente qui i superlativi vanno intesi in senso antifrastico, sono sarcastici; "di gittarmi fuori del suo dolce seno": immagine che riprende anche in Paradiso XXV, questa madre che getta fuori dal seno, che allontana, il bambino; "nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia": il mezzo della vita, cioè quando Dante viene raggiunto dalla condanna dell'esilio nel 1302; "e nel quale, con buona pace di quella (Firenze), desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato - (insopprimibile rimpianto, nostalgia insopprimibile, al di là dei toni così sarcastici, polemici, che usa qui, nel De Vulgari, quando parla della condanna ingiusta e della pena all'esilio che gli otcca patire; anche se con un sarcasmo acceso, questa invettiva contro Firenze e i suoi cittadini, che accompagna questo rimpianto che sgorga dalla mente e dall'anima, questo desiderio di ritornare a Firenze e di riposare l'animo stanco e provato) per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata": l'immagine di Dante peregrino, mendico, che dice in questo passo del Convivio che è andato quasi in tutta Italia, dove la lingua volgare si usa; è andato in tutte queste città, regioni d'Italia, peregrino, lontano dalla patria quasi mendicando, mostrando contro sua voglia la piaga della fortuna, la colpa di cui una persona patisce ingiustamente molte volte viene rivoltata, diventa la colpa di cui gli viene fatto carico. La pagina prosegue con questa immagine della povertà; naturalmente gli erano stati confiscati tutti i beni a Firenze per cui lui vive grazie al magnanimità delle corti, dei signori che lo ospitano; la condanna tra l'altro si estende, oltre che a Dante, anche ai suoi figli maschi: "Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo": di nuovo l'immagine della nave (ricordiamo il Purgatorio VI, L'invettiva all'Italia, "Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!"), "portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade": la povertà ingiusta, la povertà a cui si è condannati non per scelta, ad esempio San Francesco, è un marchio d'infamia, non è una qualità, non è una virtù; lo è se viene scelta, come fa San Francesco appunto, ma quando viene imposta, come a Dante, ingiustamente diventa un'onta; "e sono apparito a li occhi a molti che forsechè per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare": Dante dice che addiritura che questa onta che gli è stata provocata, che non si è scelto, ha fatto sì che non solamente la sua persona fosse ritenuta più vile, meno alta, meno prestigiosa agli occhi di molti, in quanto povero, ma sopratutto accanto alla sua persona e soprattutto alla sua opera che potrebbe avuto dei danni, essere stata macchiata da questa sua condizionde di povertà, sia quella già scritta che quella da scrivere. E' una sorta di trama di lamentazione che percorre l'opera Dantesca nel tempo dell'esilio e che affrontano uno dei più famosi squarci della Commedia, tema dell'esilio che è anche presente nel De vulgari Eloquentia. Nel terzo capitolo del primo libro parla del fatto che nel mondo ci sia una quantità enorme di lingue e quantità, varietà, di lingue che sembrano un paradosso, una contraddizione, rispetto quanto si racconta in Genesi, cioè alla creazione dell'uomo e al fatto che Dio concede al primo uomo, ad Adamo, il linguaggio. Il problema, che poi svilupperà, del perché dall'unità si è passati a questa molteplicità. E quindi la sua dichiarazione di voler risalire al primo uomo, ma sta di fatto che Dante ne è consapevolissimo: ci sono molte varietà di lingue e ad ogni parlante la sua lingua sembra la più bella: "Per questo e per molti altri aspetti Pietramala è una città grandissima ed è patria della maggior parte dei figli di Adamo" (questa frase va intesa in senso fortemente ironico e sarcastico. Intanto Pietramala non si sa bene cosa sia, pare che sia un piccolo villaggio sugli Appennini nel tratto tra Firenze e Bologna). "Infatti chiunque ragioni in modo così distorto da credere che il luogo della sua nascita sia il più delizioso che esiste sotto il sole, costui, più di ogni altra lingua apprezza il proprio volgare, cioè la propria lingua materna; per conseguenza crede che quello stesso volgare sia stato quello di Adamo (ecco che qui Dante ci ha spiegato appunto quello che, tra l'altro, un sentimento di tutti: che la propria lingua sia sentita da moltissimi come la lingua più bella in assoluto, e non solo pensa che sia la più bella, ma addirittura che sia la lingua perfetta, e quindi la lingua di Adamo). "Quanto a me la mia patria è il mondo ("Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor") così come per i pesci l'acqua, il mare, ho bevuto l'acqua dell'Arno prima di mettere i denti e amo Firenze al punto da patire ingiustamete l'esilio proprio perché l'ho amata"; c'è sempre questa delucidazione sull'ingiustizia dell'esilio: "Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste", e tuttavia, nonostante ciò, appoggerò la bilancia del mio giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento; è consapevole del fatto che questo amore per Firenze è un amore che non viene mai meno che la lontananza accresce nel tempo. Questo amore per la sua città , e anche per la lingua della sua città, potrebbe, dice Dante, alterare, adulterare, la limpidezza del suo giudizio. "Del mio piacere per l'appagamento dei miei sensi non esiste sulla Terra luogo più bello di Firenze": ecco qua, di nuovo, questa dichiarazione, questa confessione; ciò non gli impedisce di usare lo strumento della ragione e di cercare di condurre un ragionamento più asettico, meno appassionato, e di non essere così pregiudizialmente contrario alla disamina oggettiva degli altri volgari. Al punto che questa sua oggettività gli fa dire che esistono "tuttavia a leggere e a rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori nei quali è descritto il mondo nell'insieme e nelle sue parti, e dal riflettere in me stesso sulle varie posizioni delle varie località del mondo e sulla disposizione loro rispetto ai due poli e al circolo dell'equatore ho tratto questa ferma convinzione: esistono molte regioni e città più utili e più gradevoli della Toscana e di Firenze di cui sono nativo e cittadino; "ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più bella e più utile di quella dell'italiano". Questa professione di onestà intellettuale, anche se è una professione da prendere con le pinze, perché in realtà la lingua del sì, per Dante, e lo dice anche nel De Vulgari, è certamente il volgare, cioè l'italiano. Il tema dell'esilio, con questa sottolineatura, con questo ribadire sempre, in tutti i punti la ingiustizia della sua condanna e che si avvia col VI dell'Inferno (Ciacco) che non predice direttamente a lui (Dante) l'esilio, ma predice la cacciata dei bianchi da Firenze e la vittoria dei neri. E' implicitamente una profezia che interessa anche Dante, ma non dice che solo lui, non enfatizza, andrà in esilio; predice la cacciata, peraltro già avvenuta, dei bianchi e delle lotte a Firenze tra bianchi e neri; il tema dell'esilio è una delle grandi costanti della Commedia e si arriva ai due punti, i culmini: uno è il canto di Cacciaguida nel quale il suo trisavolo, il suo antenato, non solo gli predice l'esilio, ma anche gli elenca le città e i signori che gli offriranno asilo; siamo al Paradiso XVII, 46-99, è la più ampia digressione, squarcio, dell'esilio che si ha, tra l'altro è articolato in due parti: nella prima si racconta dell'esilio di Dante e delle tappe che poi lui toccherà in questo suo andare, come aveva detto nel Convivio, "peregrino, quasi mendicando"; nella seconda parte del canto di Cacciaguida, attraverso le parole del trisavolo viene manifestata, proclamata, la fama e la grandezza dell'opera dantesca: "Qual si partio Ipolito d'Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene". La noverca è la matrigna. Questa perfida noverca di Ipolito d'Atene è Fedra. Innamorata del figlio di suo marito, il suo figliastro il quale fugge dalla città, e essendo naturalmente respinta, lo accusa di questa violenza con una lettera che scrive prima di suicidarsi. Gli aggettivi vanno letti controluce con Firenze e con l'ingiustizia patita "la spietata e perfida". "Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca": MERCA vuol dire barattare, vendere per denaro, mercanteggiare. Qui c'è l'allusione al papa, a Roma, alla curia romana, a Bonifacio VIII sempre accusato da Dante di fare commercio delle cose sacre, quindi ecco dove Cristo viene tutto il giorno venduto. "La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa: come sempre avviene la responsabilità, lo diceva anche nel Convivio, sarà addossata alla vittima nella opio comunis; la giusta punizione divina sarà testimonianza della verità. "Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l'arco de lo essilio pria saetta": il ricorso a questo lessico dell'amore, dell'affetto; l'abbandono per le cose care e poi la povertà che già diceva nel Convivio. "Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale": andare peregrino quasi mendicando, COME SA DI SALE LO PANE ALTRUI è diventata un'espressione proverbiale, una delle tante che sono entrate nel parlar comune; E COME E' DURO CALLE come dura strada, cammino. Essere ospite, dipendere dalla generosità degli altri. "E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle": nel primo periodo, subito dopo l'esilio, Dante si allea, si unisce, agli altri bianchi fuorisciuti, condannati, come lui e ad alcuni ghibellini e per un certo periodo politicamente e anche da un punto di vista militare cerca di organizzare una manovra per sconfiggere i neri e ritornare a Firenze. Senonché questa compagnia, questa alleanza, si rivela, come dice appunto Cacciaguida, "malvagia e scempia", quindi un tentativo andato a vuoto. "che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr' a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n'avrà rossa la tempia": questi primi alleati si rivolteranno tutti contro Dante, ma poco dopo questo comportamento ricadrà ad onta non sua ma di questa matta ed empia compagnia; probabilmente Dante allude, in questo episodio, alla battaglia della Lastra (Ultimo tentativo con cui i fuoriusciti Bianchi e i Ghibellini fiorentini, con l'aiuto delle forze bolognesi, romagnole, pisane e pistoiesi, il 20 luglio 1304 cercarono di rientrare in città. Essi furono però sconfitti dai Neri che inflissero loro gravi perdite. A tale tentativo non partecipò tuttavia Dante, che già da tempo si era distaccato dai compagni d'esilio, come sottolinea Cacciaguida in Par. XVII, 61-69). "Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch'a te fia bello averti fatta parte per te stesso": per fortuna l'hai abbandonata perché questa compagnia così folle, empia, insensata avrà quello che giustamente si merita. Inizia quindi l'elenco dei rifugi: "Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che 'n su la scala porta il santo uccello": è Bartolomeo Della Scala, soggiorno veronese, che tra l'altro non è il primo ostello di Dante, in questo elogio, in questa celebrazione dei signori che l'hanno ospitato con più benificenza, con più onore, Dante ricorra ancora ad un lessico feudale; lo stemma di Bartolomeo porta l'aquila. "ch'in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo": l'elogio a Bartolomeo Della Scala la cui generosità , magnanimità, è tale che precede, previene, dà prima che gli sia chiesto. "Con lui vedrai colui che 'mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l'opere sue": qui incontrerai ancora giovinetto Cangrande della Scala, il quale nascendo, e segnato favorevolmente dalle stelle, grazie a una felice congiunzione astrologica, in particolare da Marte, da far sì che le sue opere, le sue imprese, siano notabili. "Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte" : bisogna ricordare che le profezie son fatte ex post e anche che il viaggio di Dante è collocato nel 1300 per cui i riferimenti cronologici vanno riportati al momento in cui date colloca la sua opera. Cangrande Della Scala è colui al quale Dante dedica proprio la cantica del Paradiso. "ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d'argento né d'affanni": la magnanimità è resa con il disprezzo del denaro, con la grande generosità. Infatti dice il GUASCO (il papa) incoraggia (e poi tradisce) Arrigo VI, nel 1312, di scegliere l'Italia; argento è un francesismo, cioè denaro. Le sue magnificenze, sprezzante e delle ricchezze e delle fatiche.
"Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ' suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t'aspetta e a' suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e portera'ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente": dice Dante che neppure i suoi nemici potranno tacere, potranno passare sotto silenzio, le sue magnificenze; insomma un elogio di questa grande magnificenza di Cangrande Della Scala, che esercita la giustizia in modo tale da cambiare la sorte, affidati a lui e ai suoi benifici i ricchi li farà poveri e i poveri ricchi. E' il Vangelo di Luca, I capitolo, versetti 52-53, due del Magnificat "Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles" ("ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi"). In queste profezie c'è una parte che non viene dichiarata, non viene detta, e disse (il soggetto è Cacciaguida) cose incredibili a queste che saranno presenti. L'ultimo racconto, quello più disteso, che si ha dell'esilio di Dante e molte altre profezie sono fatte, disseminate, lungo tutta la Commedia, l'ultimo momento di altissima dichiarazione della sua realtà di esule, di pellegrino, che desidera soltanto tornare nella sua città è in Paradiso XXV, le prime terzine, dove però la lamentazione dell'esilio ingiustamente patito si accompagna ad una ormai raggiunta consapevolezza della grandezza e dell'altezza della sua opera, infatti è qua che lui parla di "poema sacro". "Se mai continga che 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m'ha fatto per molti anni macro": nel duplice senso MACRO, sia per le notti, le vigilie, le fatiche che costa l'opera poetica, sia come POVERO, perché pellegrino. "vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov' io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò 'l cappello": sarò incoronato, riceverò la corona di poeta; anche qui questo tono così patetico con, comunque, di nuovo la molto esplicita e molto chiara ingiustizia da lui patita. I lupi sono i suoi nemici. Questo è l'ultimo sigillo prima di avviarsi alla parte terminale del Paradiso, la più alta autoconsacrazione che Dante fa della sua poetica. Questo per quanto riguarda la centralità multipla del tema dell'esilio sia da un punto di vista di esperienza, di crescita, di maturità anche linguistica sia anche come motivo, tema, che detta Dante tra le sue pagine o tra i suoi versi.
La composizione del De Vulgari è sicuramente posteriore al Convivio, poiché è annunciata nel Convivio; quanto alla datazione è molto ragionevole suppore che Dante abbia scritto i primi 3 trattati del Convivio dopo il 1303, e nel lasso di tempo 1304-05, prima di riprendere il Convivio e scrivere il quarto trattato, quello che è il commento alle "Dolci rime d'amor che io solia", abbia scritto il De Vulgari Eloquentia; questa è l'ipotesi oggi più accreditato. Quest'opera è annunciata nel Convivio, in forma meno vigorosa, meno energica, di come farà nel De Vulgari, ma già un principio teorico fondamentale si affaccia con grande chiarezza: le lingue mutano. Questa della mutabilità delle lingue è uno dei nodi teorici sostenuto da Dante e una dei più grandi debiti che abbiamo con lui, è stato il primo a sostenere, cosa assolutamente certa, la mutevolezza della lingua. Convivio, primo trattato, capitolo 5°, versi 8-9: "Onde vedemo ne le scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. 9. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati": fa un'osservazione acutissima, nello spazio di una o due generazione ci sono molti vocaboli che nascono e muoiono oppure cambiano. Verso 9: "onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore": questa è la ragione per la quale non è possibile capire, tradurre, le scritture antiche e le commedie, perché ormai sono lingue che non possono, poiché troppo modificate, essere capite. "Sì ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante": se in 50 anni la lingua muta, figuriamoci in mille anni, tanto che se in qualche morto mille anni prima ritornasse nelle nostre città sentirebbe una lingua incomprensibile, una lingua assolutamente strana. E proprio qui parla, annuncia l'opera: "Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza": ecco l'annuncio e il titolo dell'opera tutta dedicata a questioni di lingua e di eloquenza volgare. Anche quest'opera, anzi molto più del Convivio, mostra questa sorta di ferita; perché nel Convivio per lo meno, pur in un primo tempo ideato in 14 libri, ne trasmette 4 completi; non così il De Vulgari il quale, progettato, ideato secondo alcuni spunti che si ricavano all'interno del testo, in 4 libri, viene però interrotto bruscamente proprio a metà di una frase, neppure alla fine di un capitolo, a metà di una frase, alla metà del 14° capitolo del libro II. Non finisce neanche il periodo: "et alia decenti prolixitate passim veniant ad extremum ..." e qui sono le ultime parole e il testo si interrompe. Si interrompe il De Vulgari come il Convivio, non si sa bene la ragione di un'interruzione così brutale, certamente tutte le altre opere sono lasciate incompiute perchè si accinge, a partire dal versetto 6, a comporre la Commedia. Ci sono documentazioni: Boccaccio lo conosce ad esempio, ma quella del De Vulgari è una storia molto particolare poiché i contemporanei lo conosco, poi cade totalmente nell'oblio, viene recuperato con una vicenda abbastanza avventurosa, quasi rocambolesca nel '500, ma viene recuperato da Trissino che lo traduce e lo fa conoscere ai vari intellettuali. La traduzione del De Vulgari diventa strumento privilegiato nelle discussioni linguistiche primocinquecentesche.

(Ricordo sempre che sono solo APPUNTI, sbobinando dei file audio delle lezioni: mi scuso in anticipo per errori o per parti prive di significato)

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