giugno 20, 2013

Ma il bullismo in classe non è colpa della scuola


di Marco Lodoli 
E ora cadiamo dalle nuvole, sgraniamo gli occhi e sorpre
sissimi ci domandiamo: ma come
è mai possibile che nelle scuole si moltiplichino le viol
enze e i soprusi, come diavolo è
accaduto che i nostri adolescenti, che solo dieci minuti fa
erano ancora bambinetti
ingenui, siano diventati così aggressivi e insensibili?
Non facciamo i finti tonti, vi prego, e non gettiamo
sulle spalle curve della scuola anche
questa colpa. Sono vent’anni almeno che l’immaginario
della nostra società si struttura
attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla br
utalità, sono vent’anni almeno che gli
insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutri
ti da un cibo avariato che avvelena la
mente, eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fi
no alla frenesia, cancella ogni
pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione
senza scopi.
È questa la direzione in cui procede la nostra cultura,
almeno quella più popolare, quella
tenuta sotto controllo dall’industria del consumo. Bisog
na sfondarsi, stravolgersi, scalciare
a vuoto, e poi accasciarsi con i vestiti giusti su qualche d
ivano o su una panchina di un
centro commerciale, senza pensare a niente.
E non dimentichiamo le centinaia di film horror bevut
i dagli occhi teneri di ragazzini alti un
metro e venti, i contenuti e le forme di una televisi
one dove nulla deve mai affaticare la
mente ma solo elettrizzarla, nulla deve mai invitare
a un pensiero più complesso, dove
tutto rotola a cento all’ora tra bellocce in mutande
e ragazzotti gelatinati e semianalfabeti,
dove ogni minuto c’è qualcuno che ti invita a comprar
e qualcosa. Insomma, a quindici
anni nella testa di un adolescente, come nella gola di
un’oca, è già stata rovesciata una
quantità spaventosa di schifezze.
E dall’altra parte del fosso c’è la scuola, lavagne nere
e gessetti, vecchi banchi allineati,
professori vestiti così così, che arrivano in autobus o su
macchine mezze scassate, e che
assegnano compiti su cui sudare, che ripetono fino alla
nausea che la vita è dura, che
bisogna studiare, concentrarsi, perché nulla ci viene rega
lato, perché anche le passioni
prevedono sacrifici, costanza, tempi lunghi.
Sono due mondi che inevitabilmente entrano in collisi
one, e non è difficile intuire qual è il
vaso di coccio e quale il vaso di ferro. E spesso i ragazzi
hanno alle spalle solo le rovine
di famiglie sfasciate, padri e madri che non hanno temp
o né voglia di occuparsi di loro,
che li lasciano soli davanti alla musica malandrina di sir
ene che puntano solo a spolparli.
E così è inevitabile che accada il peggio. La scuola non p
uò non apparire agli occhi dello
studente stravolto che come una perdita di tempo, un po
sto lento, dove si imparano cose
inutili, che non aiutano affatto a tenere sempre viv
a e zampillante l’adrenalina.
La scuola sembra il contrario della bella vita. Il bul
lismo, ma sarebbe meglio chiamarlo
carognismo, nasce in questo contesto.

L’adolescente non tollera la sua età, non può accettare
di restare immerso nelle lunghe
stagioni dell’apprendistato, nella vaghezza di un tem
po dove tutto accade piano piano:
vuole dimostrare agli altri ma soprattutto a se stesso che
la sua volontà di potenza,
accuratamente fomentata dal mondo, non si ferma davant
i a nulla, figuriamoci davanti alla
compassione.
Così umilia, perseguita, picchia il compagno più debole,
ancora incastrato nella sua
naturale fragilità, così calpesta il compagno handicappat
o, perché quella debolezza non
trova alcuno spazio nel suo ordine di valori.
Così se ne frega dei rimproveri dell’insegnante, un po
veraccio che non andrà mai in
televisione, che obbedisce a una morale antica, ridicola.
Si chiede alla scuola di
aggiornare i programmi, di togliersi le ragnatele di
dosso e correre al ritmo del nostro
tempo competitivo e sempre nuovo.
Ma la scuola non può tenere il passo della cultura domi
nante, è una gara persa in
partenza, una gara falsata.
Leggete questo passo di Czeslaw Milosz, premio Nobel per
la letteratura nel 1980, sono
le parole preoccupate di un uomo saggio, uno che oggi
la pubblicità deride, ma che forse
sarebbe meglio ascoltare con attenzione:
«Innumerevoli quantità di malattie mentali,
squilibrati che vagano per le strade e parlano da soli,
un generale abuso di sesso e
droghe, una diffusa criminalità. Di qui l’esigenza di
radunarsi in piccole comunità
cementate dal rispetto per la ragione, il buon senso,
la purezza dei costumi. E forse in
esse, in mezzo al generale abbrutimento, sopravviverà per
sino la poesia, divenuta
prerogativa dei sani tra gli insani, come un tempo lo e
ra degli insani tra i sani»
.
Che possa essere la scuola una di queste comunità? 
 Da: “La Repubblica” di venerdì 17 novembre 2006

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