maggio 09, 2011

Adunata Alpini a Torino





























































































Il 6, il 7 e l'8 maggio 2011 sono date memorabili, che i torinesi difficilmente dimenticheranno, per molti anni a venire.
Per chi come me, poi, da anni sognava di prendere parte ad una "Adunata" ( e non ad un "Raduno" che, come si affretta a specificare qualcuno sul gruppo Facebook "Truppe Alpine", è delle moto), questa 84° edizione, è stata un'occasione speciale, da non perdere.
Specifichiamo subito, per fugare ogni dubbio, evitare fraintendimenti di sorta e per meglio spiegare un sentimento di base che unisce tutti gli ex alpini, spesso scambiato per folklore triste o macchiettistico, che io, per principio, sono (e lo sono sempre stato) un pacifista, un non-violento, contrario ad imbracciare ogni tipo di arma e non concepisco nessuna forma di guerra. Insomma, non sono un invasato adoratore di oggettistica militare o nostalgico delle parate. Anzi. Per certi versi, e per come ho vissuto io l'anno di naja, 2° Reggimento Alpini, scaglione: 8°/92, forse avrei dovuto far di tutto per dimenticare o rimuovere dal mio cervello quel ricordo.
Sfogliando un sorta di diario nel quale scrivevo a quel tempo le mie sensazioni di adolescente impaurito, non posso fare a meno di notare che le emozioni negative erano di gran lunga più numerose rispetto ai momenti di spensierata felicità: la lontananza da casa e dalla famiglia, la diffidenza iniziale che tutti i commilitoni avevano tra loro, soprattutto durante i primi giorni, il sentirsi spaesati e fuori dal mondo, il freddo, l'incomprensione assoluta di ordini impartiti, erano fonte di angoscia costante per un ragazzo che poteva considerarsi anche un po' viziatello.
Non capivo i comportamenti fuori dalla logica e mal sopportavo i rigori autunnali dell'ottobre 1992: al mattino subito dopo la sveglia delle 6,30, ancora buio, ci facevano raccattare le foglie attorno alla palazzina che cadevano a terra, giornalmente. In quei 15 giorni di C.A.R., presso la Caserma "Ignazio Vian" di San Rocco Castagnaretta (Cn), non ha soffiato una volta vento sufficientemente forte da farle cadere in un colpo solo e una volta per tutte! Così, tutte le mattine, accovacciati sui polpacci, ci toccava far pulizia con le mani, in maniera certosina, raccogliendole una ad una. Chissà perché! Allora pensi: "Ma una scopa, un'aspirapolvere, no?". E no! Troppo semplice, troppo comodo! Se non l'hai vissuto non lo comprendi. Era così e basta. Gli ordini non si discutono. Certo, qualcuno ci ha provato...Ma gli è andata peggio. Meglio non farsi domande, se non si vuole impazzire. E così via, per ogni minimo atto della giornata, veniva ordinato senza coerenza ed eseguito in maniera automatica. I primi tre giorni li ricordo ancora come un vero e proprio incubo: file interminabili all'aperto col vento gelido, per qualsiasi cosa: per la distribuzione delle divise, per il taglio dei capelli, per le vaccinazioni. Per tutto. Devo ammettere che dopo questa fase di terrore, la tensione si è alleggerita gradualmente. I caporali istruttori non ci trattavano più come si vede nel film "Full Metal Jacket" e s'iniziava a prendere un po' di confidenza e a far nascere una sorta di amicizia. Forse faccio male a chiamarla "amicizia", di certo era necessario fare gruppo, cercare il più possibile di difendersi dalle avversità creando tra noi intesa, confidenza, solidarietà, affiatamento, insomma, quello che viene chiamato in gergo "cameratismo". Ed è l'unica cosa che conti davvero in quella crcostanza. Il resto sono solo leggende stupide che alimentano l'aspetto più pittoresco e vivace di questo antico corpo militare. Stereotipi che fanno ridere, eppure sono limitati e limitanti: l'alpino che si ubriaca di grappa, l'asino...C'è anche questo, è vero. A Torino alle 10 del mattino degli alpini cercavano una ferramenta che vendesse lo strumento per pompare il vino dalla damigiana, le bevute in compagnia sono frequenti; probabilmente è un rito dissacratorio esorcizzante la sofferenza patita. Ma non è solo questo. I cittadini del capoluogo piemontese hanno dimostrato un amore genuino nei confronti degli alpini, seppur tra gli innumerevoli disagi che una manifestazione di tal portata ha causato. E con la partenza del Giro d'Italia proprio dalla mia città la popolazione complessiva è aumentata di quasi un milione di unità.
Ricordo, inoltre, che spesso, quando si era in alta montagna con la neve fino al collo, per gli addestramenti, i poligoni, gli attacchi di squadra, barattavo alcune parti della "Razione K" con il cosiddetto cordiale, un liquore ad alta gradazione alcolica, per stordirmi un po' e non avere freddo. Non potevo certo considerarmi un alcolizzato, o almeno, non più di quanto si considerino alcolizzati i giovani d'oggi che in discoteca prendono 3 consumazioni x 10 euro...
Quando sembrava avessimo trovato la quadra e i legami al CAR si stessero consolidando, ecco presentarsi la prima delusione. Subito dopo il "Giuramento" siamo stati smistati in varie caserme e non ci siamo mai più rivisti o incontrati.
Giunto alla caserma definitiva di destinazione, la "Cerruti" di Boves (oggi smantellata mi pare, così come la sua gemella di Borgo San Dalmazzo) ho cercato anche lì di prendere confidenza con i nuovi coinquilini. Nuove regole, nuovi ordini, nuovi commilitoni ci hanno costretto a ricominciare da zero. Tutti nella stessa barca. Tranne i caporali istruttori che sembravano vivere in una condizione di privilegio costante. Comandavano loro, spesso non si vedevano né sottoufficiali né ufficiali stellati. Solo loro. Eravamo alla mercé di ragazzi, a volte, più giovani di noi. Io, ad esempio, avevo rimandato la leva di qualche anno per studio arrivando in caserma a 20 anni compiuti, mentre molti caporali istruttori ne avevano 18! Potrei raccontare un'infinità di episodi di abusi di potere, angherie gratuite, atti di nonnismo (che nella mia caserma, in quanto "operativa", abbondavano); potrei entrare minuziosamente nei dettagli, tanto ancora certi ricordi sono vividi, impressi nella mia mente, come il vedersi strappare una licenza, il tanto anelato "48" (48 ore circa, andavi a casa per il venerdì sera e rientravi in caserma domenica entro le 23, se eri esente da servizi o piantoni vari), solo perché si era mossa impercettibilmente la mano durante l'alzabandiera del mattino, ma evito. Si vociferava, appena giunto a Boves, che quella caserma fosse addirittura "punitiva". Quante volte mi sono chiesto perché sarei dovuto essere stato punito dal Signore? Semplice casualità? Sfiga? Cosa avevo fatto per finire proprio lì? Me lo meritavo? Ma tant'è...La cosa peggiore in questi casi è lamentarsi e piangere. Ho frignato per un po', mi sono crogiolato nel mio dolore. Poi ho visto che non interessava a nessuno, quindi l'unica soluzione valida era reagire e sforzarmi di sopravvivere. Non eravamo in guerra, è vero. Ma la simulazione era riuscitissima e aderente alla realtà, lo assicuro. Riuscii, tuttavia, a non farmi spedire in Mozambico per la missione "umanitaria" (già allora si usavano certi termini privi di significato...). Rimanere in caserma a Boves è stato forse peggio. Partiti i miei compagni, in pochi rimanemmo in caserma, quindi dovevamo fare tutto noi, pochi superstiti: marce, poligoni, assalti di squadra, guardie. Mentre dopo qualche mese i compagni partiti per il Mozambico ritornarono da eroi. Nessuno più li controllava, stavano svaccati nelle camerate, serviti e riveriti, e, di fatto, ormai avevano finito la naja.
In tutti quei mesi però nasceva inevitabilmente un sentimento che ci univa, e molto. Forse, gli Alpini hanno storia a sé, ma il legame è indissolubile. Molti, anzi per la maggior parte, si perdono di vista. Difficilmente ci si ritrova. La vita cambia uscendo di lì, come per chi è stato in galera ed esce un giorno o l'altro portandosi dietro ricordi fortissimi di prigionia e di cameratismo, da quelle mura e si vuole solo dimenticare in fretta, come dicevo all'inizio, di un'esperienza dura e senza senso. Ma "essere" alpino ti entra nelle vene, nell'anima; non ne puoi più fare a meno. Lo sarai per sempre, a vita, finché crepi. Non saprei dire se anche per le altre forze armate avvenga lo stesso processo. Sono certo, però, che per il corpo degli alpini è così. Non si scappa.
Ecco perché ogni qualvolta, in passato, sentivo la notizia al telegiornale dell'Adunata degli Alpini nelle varie città d'Italia, rimanevo irrimediabilmente sedotto e mi si gelava il sangue. Come un impulso simile a quello provocato dalle vertigini: lo rifiutavo, ma ne ero attratto. Avrei sempre voluto partecipare e non l'ho fatto. Questa volta ce l'avevo sotto casa. Perché mancare?

4 commenti:

Anonimo ha detto...

ma dunque tu hai conosciuto il sergente maggiore ricci ? il maresciallo farina ? il tenente pognant ?

Anonimo ha detto...

io mi chiamo gianni priano , 6/86 a boves

su fb mi trovi facilmente

Biagio ha detto...

Sì, nel 1992 era capitano Ricci. Non ricordo Farina e Pognant. Il maresciallo era Fresi, se non erro.

Anonimo ha detto...

il maresciallo fresia .....simplicio . lo ricordo bene .
ricci capitano ? nell'86 era sergente maggiore , il capitano era rossi .

gianni priano

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